La colpevolizzazione della vittima
consiste nel ritenere la vittima di un crimine o di altre sventure
parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto e
spesso nell'indurre la vittima stessa ad autocolpevolizzarsi. Un
atteggiamento di "colpevolizzazione" è anche connesso con
l'ipotesi che si deve conoscere e accettare una supposta "natura
umana" (che sarebbe maligna in questa visione, o tendente
all'abuso, alla sopraffazione), e – conseguentemente –
adeguarcisi anche a scapito dei propri desideri, opinioni e della
propria libertà.
Storia del concetto
Il concetto di "colpevolizzazione
della vittima" è stato coniato da William Ryan con la
pubblicazione, nel 1971, del suo libro intitolato appunto Blaming
the victim. La pubblicazione è una critica al saggio di Daniel
Patrick Moynihan The Negro Family: The Case for National Action
del 1965, in cui l'autore descriveva le sue teorie sulla formazione
dei ghetti e la povertà intergenerazionale. Ryan muove una critica a
queste teorie in quanto le considera tentativi di attribuire la
responsabilità della povertà al comportamento e ai modelli
culturali dei poveri stessi. Il concetto è stato ripreso in ambito
legale, in particolare in difesa delle vittime di stupro accusate a
loro volta di aver causato o favorito il crimine subito.
Colpevolizzazione nei crimini sessuali e/o d'odio
Il tentativo di rendere la vittima
colpevole di ciò che le è accaduto si riscontra con maggiore
frequenza nei crimini a sfondo sessuale e nei cosiddetti crimini
d'odio. Nel contesto dello stupro e della violenza di genere, questo
concetto si riferisce alla tendenza diffusa ad interpretare
"colpevolizzandoli" i comportamenti delle vittime. Abusi e
violenze sarebbero provocati quindi in molti modi: dal flirtare, al
tipo di abbigliamento indossato (in questo caso ci sono interessanti
variabili geografiche e culturali), all'essersi trovata nel "posto
sbagliato al momento sbagliato". Nell'ambito della violenza
domestica e nel mobbing il processo di colpevolizzazione della
vittima è stato descritto come parte integrante della violenza
fisica e verbale: i comportamenti della vittima vengono
sistematicamente interpretati come "provocazione" alla
violenza.
In alcuni casi si cercano di
colpevolizzare le vittime anche retrospettivamente, analizzandone il
vissuto, il lavoro, lo stato civile, il comportamento, presumendo
quindi che la vittima "se l'è cercata" o che abbia
"meritato" la violenza subita. In alcuni casi anche
l'orientamento sessuale viene usato nel meccanismo di
colpevolizzazione della vittima. Le violenze e gli abusi sessuali
sono particolarmente stigmatizzati nelle culture con costumi
restrittivi e tabù riguardanti sesso e sessualità. Ad esempio una
persona sopravvissuta ad uno stupro (specialmente se prima era
vergine) può essere socialmente percepita come "deteriorata".
Le vittime in casi simili possono soffrire a causa del conseguente
isolamento, dall'essere rinnegate da amici e parenti, della possibile
interdizione al matrimonio o dal divorzio forzato se precedentemente
sposate, ed infine possono anche essere uccise.
Vittimizzazione secondaria
Generalmente si parla di
"vittimizzazione secondaria" (o "post-crime
victimization") quando le vittime di crimini subiscono una
seconda vittimizzazione da parte delle istituzioni, dagli operatori e
operatrici sociali, o dall'esposizione mediatica non voluta. A questo
proposito l'Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel 1985 ha
formulato la "dichiarazione dei principi basilari della
giustizia per le vittime di reato e abuso di potere" (UN,1986;
risoluzione annuale 40/34).
La colpevolizzazione come reazione a dissonanze cognitive
Rifiuto dell'ingiustizia
Alcuni hanno proposto che il fenomeno
della colpevolizzazione della vittima coinvolga l'ipotesi del mondo
giusto, in cui la gente tende a considerare il mondo come un posto
giusto e non può accettare una situazione in cui una persona soffre
senza un valido motivo. Quindi il ragionamento che viene fatto è il
seguente: le persone che sono vittime di sventure, devono aver fatto
qualcosa per averle attirate su di sé. Questa teoria risale a tempi
molto antichi: il biblico Libro di Giobbe ne offre una spiegazione
canonica.
I sostenitori di questa visione devono per forza accettare che fare altrimenti richiederebbe loro di abbandonare questo atteggiamento consolidato, e credere invece in un mondo dove "cose cattive" come povertà, stupro, fame e violenza possano accadere anche a "brave persone" e senza un "buon motivo"; ma facendo ciò la dissonanza cognitiva diventa insostenibile e produce la colpevolizzazione della vittima.
I sostenitori di questa visione devono per forza accettare che fare altrimenti richiederebbe loro di abbandonare questo atteggiamento consolidato, e credere invece in un mondo dove "cose cattive" come povertà, stupro, fame e violenza possano accadere anche a "brave persone" e senza un "buon motivo"; ma facendo ciò la dissonanza cognitiva diventa insostenibile e produce la colpevolizzazione della vittima.
Tecniche di neutralizzazione
La colpevolizzazione della vittima
interviene come reazione individuale o sociale rispetto alle
dissonanze cognitive che scaturiscono da condotte criminali,
illecite, o trasgressive dell'ordine sociale: questo particolare
utilizzo la fa rientrare all'interno di quell'armamentario di
tecniche di neutralizzazione che vengono messe in campo per
attenuare, o addirittura risolvere, il conflitto condotte
trasgressive instaurano nei confronti di regole morali e della morale
sociale, e che puntano all'esclusione, o almeno all'attenuazione,
della responsabilità individuale nell'operato illecito, attraverso
una ridefinizione del senso dell'azione posta in essere.
In questo caso, la neutralizzazione del
senso di colpa si attua attraverso l'inversione della responsabilità
del gesto: l'onere della colpa viene scaricato sulla vittima,
accusata di aver messo in atto comportamenti provocatori e quindi,
indirettamente, criminogeni: la donna stuprata, ad esempio, è spesso
indicata quale vera colpevole della devianza dello stupratore, il
quale sarebbe stato indotto all'approccio sessuale dalla condotta
ammiccante della vittima, dal suo particolare abbigliamento, o da
eventuali atteggiamenti sensuali o provocanti. Come succede nei casi
di violenza sessuale, si tratta, molto spesso, di una percezione
distorta dei comportamenti della vittima, a cui l'attore attribuisce
"intenzioni e responsabilità in realtà inesistenti".
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