giovedì 29 aprile 2021

Colpevolizzazione della vittima

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La colpevolizzazione della vittima consiste nel ritenere la vittima di un crimine o di altre sventure parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto e spesso nell'indurre la vittima stessa ad autocolpevolizzarsi. Un atteggiamento di "colpevolizzazione" è anche connesso con l'ipotesi che si deve conoscere e accettare una supposta "natura umana" (che sarebbe maligna in questa visione, o tendente all'abuso, alla sopraffazione), e – conseguentemente – adeguarcisi anche a scapito dei propri desideri, opinioni e della propria libertà.

Storia del concetto

Il concetto di "colpevolizzazione della vittima" è stato coniato da William Ryan con la pubblicazione, nel 1971, del suo libro intitolato appunto Blaming the victim. La pubblicazione è una critica al saggio di Daniel Patrick Moynihan The Negro Family: The Case for National Action del 1965, in cui l'autore descriveva le sue teorie sulla formazione dei ghetti e la povertà intergenerazionale. Ryan muove una critica a queste teorie in quanto le considera tentativi di attribuire la responsabilità della povertà al comportamento e ai modelli culturali dei poveri stessi. Il concetto è stato ripreso in ambito legale, in particolare in difesa delle vittime di stupro accusate a loro volta di aver causato o favorito il crimine subito.

Colpevolizzazione nei crimini sessuali e/o d'odio

Il tentativo di rendere la vittima colpevole di ciò che le è accaduto si riscontra con maggiore frequenza nei crimini a sfondo sessuale e nei cosiddetti crimini d'odio. Nel contesto dello stupro e della violenza di genere, questo concetto si riferisce alla tendenza diffusa ad interpretare "colpevolizzandoli" i comportamenti delle vittime. Abusi e violenze sarebbero provocati quindi in molti modi: dal flirtare, al tipo di abbigliamento indossato (in questo caso ci sono interessanti variabili geografiche e culturali), all'essersi trovata nel "posto sbagliato al momento sbagliato". Nell'ambito della violenza domestica e nel mobbing il processo di colpevolizzazione della vittima è stato descritto come parte integrante della violenza fisica e verbale: i comportamenti della vittima vengono sistematicamente interpretati come "provocazione" alla violenza.
In alcuni casi si cercano di colpevolizzare le vittime anche retrospettivamente, analizzandone il vissuto, il lavoro, lo stato civile, il comportamento, presumendo quindi che la vittima "se l'è cercata" o che abbia "meritato" la violenza subita. In alcuni casi anche l'orientamento sessuale viene usato nel meccanismo di colpevolizzazione della vittima. Le violenze e gli abusi sessuali sono particolarmente stigmatizzati nelle culture con costumi restrittivi e tabù riguardanti sesso e sessualità. Ad esempio una persona sopravvissuta ad uno stupro (specialmente se prima era vergine) può essere socialmente percepita come "deteriorata". Le vittime in casi simili possono soffrire a causa del conseguente isolamento, dall'essere rinnegate da amici e parenti, della possibile interdizione al matrimonio o dal divorzio forzato se precedentemente sposate, ed infine possono anche essere uccise.

Vittimizzazione secondaria

Generalmente si parla di "vittimizzazione secondaria" (o "post-crime victimization") quando le vittime di crimini subiscono una seconda vittimizzazione da parte delle istituzioni, dagli operatori e operatrici sociali, o dall'esposizione mediatica non voluta. A questo proposito l'Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel 1985 ha formulato la "dichiarazione dei principi basilari della giustizia per le vittime di reato e abuso di potere" (UN,1986; risoluzione annuale 40/34).

La colpevolizzazione come reazione a dissonanze cognitive

Rifiuto dell'ingiustizia

Alcuni hanno proposto che il fenomeno della colpevolizzazione della vittima coinvolga l'ipotesi del mondo giusto, in cui la gente tende a considerare il mondo come un posto giusto e non può accettare una situazione in cui una persona soffre senza un valido motivo. Quindi il ragionamento che viene fatto è il seguente: le persone che sono vittime di sventure, devono aver fatto qualcosa per averle attirate su di sé. Questa teoria risale a tempi molto antichi: il biblico Libro di Giobbe ne offre una spiegazione canonica.
I sostenitori di questa visione devono per forza accettare che fare altrimenti richiederebbe loro di abbandonare questo atteggiamento consolidato, e credere invece in un mondo dove "cose cattive" come povertà, stupro, fame e violenza possano accadere anche a "brave persone" e senza un "buon motivo"; ma facendo ciò la dissonanza cognitiva diventa insostenibile e produce la colpevolizzazione della vittima.

Tecniche di neutralizzazione

La colpevolizzazione della vittima interviene come reazione individuale o sociale rispetto alle dissonanze cognitive che scaturiscono da condotte criminali, illecite, o trasgressive dell'ordine sociale: questo particolare utilizzo la fa rientrare all'interno di quell'armamentario di tecniche di neutralizzazione che vengono messe in campo per attenuare, o addirittura risolvere, il conflitto condotte trasgressive instaurano nei confronti di regole morali e della morale sociale, e che puntano all'esclusione, o almeno all'attenuazione, della responsabilità individuale nell'operato illecito, attraverso una ridefinizione del senso dell'azione posta in essere.
In questo caso, la neutralizzazione del senso di colpa si attua attraverso l'inversione della responsabilità del gesto: l'onere della colpa viene scaricato sulla vittima, accusata di aver messo in atto comportamenti provocatori e quindi, indirettamente, criminogeni: la donna stuprata, ad esempio, è spesso indicata quale vera colpevole della devianza dello stupratore, il quale sarebbe stato indotto all'approccio sessuale dalla condotta ammiccante della vittima, dal suo particolare abbigliamento, o da eventuali atteggiamenti sensuali o provocanti. Come succede nei casi di violenza sessuale, si tratta, molto spesso, di una percezione distorta dei comportamenti della vittima, a cui l'attore attribuisce "intenzioni e responsabilità in realtà inesistenti".

mercoledì 28 aprile 2021

Bossing

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Il bossing come inteso in questo post è un pseudo anglicismo utilizzato molto raramente solo in Italia per indicare una forma specifica di mobbing che ricorre quando il soggetto agente non sia un pari grado e/o, bensì un superiore gerarchico, in diversi contesti sociali (come ad esempio un capoufficio, un dirigente, un manager, un ufficiale nelle forze armate).

Caratteristiche

Il bossing consiste in una forma peculiare di molestia psicologica che viene attuata con il preciso scopo di indurre il dipendente alle dimissioni, spesso per l'impossibilità di poterlo licenziare senza dovere versare costosi incentivi all'esodo. Il bossing può concretizzarsi in modalità differenti ma con lo scopo comune di creare un clima di tensione intollerabile attraverso atteggiamenti severi, minacce e rimproveri costanti, la revoca di benefit meritati e utili (la macchina dell'azienda, il telefono cellulare, abuso eccessivo di strumenti di controllo eventualmente previsti, azioni di sabotaggio, ecc.), oppure affidando alla vittima compiti degradanti e dequalificanti rispetto al profilo professionale del lavoratore, privandolo così di ogni opportunità di crescita personale e di carriera.
Si tratta in sostanza di una forma di persecuzione attuata attraverso una strategia di vessazioni psicologiche e disciplinari, volta a costringere il dipendente sgradito all'autolicenziamento. Le cause che portano ad una strategia di questo tipo possono essere personali (come l'invidia da parte dei superiori o la paura del capo di essere superato dal dipendente), oppure organizzativi (come la necessità di ridurre o ringiovanire il personale o di diminuire le risorse umane in rami aziendali improduttivi). La ratio di questa strategia è evidentemente nel vantaggio di potersi liberare di un dipendente o sottoposto senza dover sottostare alle norme e ai procedimenti spesso lunghi e onerosi previsti dal diritto del lavoro o da accordi sindacali, o semplicemente dalle clausole contrattuali.

Conseguenze

Le persone soggette a bossing presentano notevoli rovesciamenti d'umore, spesso soffrono d'insonnia, perdita di fiducia in sé stessi e nelle proprie capacità sino a sviluppare depressione. Di conseguenza, si assiste ad un aumento dell'uso di psicofarmaci, alcol e sigarette. Quindi, oltre ad un grande danno psicologico, si rileva anche un danno fisico non trascurabile.

Tipologie

A seconda dei vari contesti, possono esservi diverse tipologie di bossing:
  • job bossing, corrispondente alla classica e più diffusa forma di mobbing "dall'alto" sul posto di lavoro;
  • port bossing, praticato all'interno di una organizzazione sportiva, di solito da un allenatore, o da un direttore tecnico, che intende indurre la vittima all'autoallontanamento o più semplicemente a uno stato di soggezione;
  • school bossing, praticato da un insegnante che usa sistematicamente frasi o espressioni denigratorie, atte a indurre insicurezza o un calo dell'autostima, oppure mette in atto provvedimenti persecutori ingiustificati a carico di un allievo;
  • military bossing, tipicamente diffuso all'interno delle forze armate e messo in atto, attraverso espressioni irriguardose e/o provvedimenti disciplinari persecutori, da un superiore a carico di uno o più subordinati;
  • club bossing, praticato all'interno di società o associazioni del genere più vario (amatoriali, professionali, parrocchiali, artistiche, di beneficenza, ecc.), da membri anziani autorevoli o con ruolo dirigente a danno di membri più recenti, o comunque in posizione più debole, la cui attività o presenza non risulti gradita.

Strategie offensive

Il fenomeno del bossing è caratterizzato da numerose strategie che servono per indurre i lavoratori di un'azienda a presentare le proprie dimissioni in modo volontario e spontaneo.

La lista nera

Una strategia molto diffusa sarebbe quella di far circolare una lista nera in cui vengono inseriti i nomi delle persone che non svolgono delle mansioni utili per l'impresa e quindi non sono indispensabili ma solo di intralcio. Queste liste nere vengono generalmente redatte in più copie e non sono mai rese "ufficiali", bensì cercano di mantenere una certa segretezza al riguardo dei nomi delle persone che l'azienda ha scelto di eliminare. Questa strategia provoca nel personale dell'azienda un notevole stato di stress, di tensione e di insicurezza e di conseguenza si ha un aumento di conflitti interni che realizzano lo scopo di incentivare le dimissioni dei lavoratori esasperati.

Il demansionamento

Una seconda strategia scorretta che ha l'impresa o il datore di lavoro è quella di fornire al lavoratore degli incarichi che rappresentano per lui stesso motivo di degrado e di dequalificazione perché attraverso questi compiti lui non riesce a realizzare qualcosa di costruttivo. Quest'ultima modalità è definita "demansionamento", disciplinata nei vari ordinamenti giuridici e spesso sanzionabile.
Potrebbe essere adottato dal datore di lavoro che voglia liberarsi legalmente di figure lavorative non più utili al disegno aziendale perché ritenute obsolete o per altri motivi deve pagare a questi lavoratori delle somme di indennità molto elevate; pertanto le imprese a volte preferiscono attivare il fenomeno del bossing.

Strategie difensive

È necessario anzitutto che il soggetto non si demoralizzi mai, ma prenda coscienza dei propri diritti di lavoratore e li difenda denunciando i fatti agli apposti organismi di tutela. È necessario inoltre che egli adotti tutte le strategie di autodifesa e di autotutela del caso per neutralizzare gli attacchi; un metodo potrebbe essere il raccogliere in modo ordinato quanto più materiale sia possibile, come ad esempio le email di lavoro, le comunicazioni interne, gli sms, acquisire registrazioni audio, come strumento di prova per dimostrare le angherie subìte e cercare di ottenere giustizia.

Tutela legislativa

Non tutti gli ordinamenti giuridici si sono dotati di una normativa specifica sul mobbing "dall'alto", o bossing, e spesso la legge o gli accordi sindacali prevedono i relativi strumenti e procedure operative a tutela di chi ne è vittima. La letteratura giuridica sull'argomento è ormai sufficientemente vasta ed articolata, e anche la casistica comincia ad essere studiata dal punto di vista giuridico e psicosociologico con una certa sistematicità.
Spesso però risulta molto difficile dimostrare di essere vittime di tali attività, perché si tratta di una zona dove le persone senza scrupoli né morale si muovono indisturbati, sicuri di non essere mai colpiti dalla legge proprio perché si tratta di fatti che moltissimi individui subiscono, ma che poi la grande maggioranza di essi non denuncia.

martedì 27 aprile 2021

Aggressività

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L'aggressività è un fenomeno complesso, che rientra nelle problematiche legate al manifestarsi della violenza negli esseri umani. Le dinamiche psichiche e biologiche che conducono ai conflitti violenti tra le persone, il loro legame con gli istinti primari sono questioni che da due secoli psicologi e altri studiosi analizzano e che solo recentemente si stanno chiarendo.

Etologia

Nell'etologia in generale (e nell'etologia umana in particolare) col termine aggressività s'intende l'impulso istintuale ad aggredire animali di altre specie o della propria al fine di attentare alla loro esistenza, per cibarsene nel caso di specie predatorie carnivore, o comunque di provocare loro lesioni o danni diffusi. In altri termini, l'aggressività è letta dagli etologi come funzionale alla soddisfazione degli obiettivi primari: mangiare e copulare. Si ha aggressività per difendere un territorio, per proteggere i propri piccoli, per organizzare la scala sociale gerarchica all'interno di un gruppo nelle specie sociali. Konrad Lorenz ha studiato l'aggressività all'interno del comportamento animale, pubblicandone un primo saggio nel 1966 con il titolo Il cosiddetto male.

Scienze sociali

In psicologia ed in altre scienze sociali e comportamentali, con il termine aggressività ci si riferisce all'inclinazione a manifestare comportamenti che hanno lo scopo di causare danno o dolore ad altri da sé. L'aggressione in ambito umano può attuarsi sia sul piano fisico che verbale, ed una certa azione viene considerata aggressiva anche se non riesce nelle sue intenzioni di danneggiamento. Al contrario, un comportamento che causa solo accidentalmente un danno non è da considerarsi aggressione.
L'aggressività è stato un argomento sempre trattato dalle scienze sociali (psicologia, sociologia, antropologia) ed infatti esistono varie teorie. Per alcuni studiosi l'aggressività dipende da fattori innati, cioè sostengono che si nasce con l'istinto di aggredire, per gli ambientalisti, invece, l'aggressività è un fattore acquisito. Alcune scuole ambientaliste sono:
  • la scuola che si basa sulla teoria della frustrazione;
  • la scuola dell'apprendimento sociale;

Teoria della frustrazione

La frustrazione è una condizione psicologica di sofferenza che nasce dalla impossibilità di soddisfare un'esigenza fondamentale di natura psicologica o fisica a causa di un ostacolo esterno. Grazie ad alcuni esperimenti di Leonard Berkowitz si dimostra che non solo la frustrazione può rendere aggressivi ma anche la presenza di indizi aggressivi. L'esperimento di Berkowitz, infatti, mette in evidenza che la causa dei comportamenti aggressivi, oltre alla frustrazione, è anche il modo in cui viene interpretata una situazione; se sono presenti armi, ad esempio, si è portati a credere che la situazione è pericolosa, pertanto frustrati o no si reagisce in modo aggressivo.

Scuola dell'apprendimento sociale

Questa scuola di pensiero si basa sulla teoria per cui si diventa aggressivi quando si hanno dei modelli aggressivi nell'ambito familiare o a scuola o tra gli amici; è quindi un fattore acquisito. La psicologia sociale afferma che in un gruppo di amici esiste la mentalità di gruppo, ovvero tutti compiono delle azioni perdendo la propria obbiettività, quindi se nel gruppo si aggredisce e se gli altri aggrediscono, noi componenti di quel gruppo siamo portati a fare altrettanto.

Filosofia

Riflessioni in merito all'aggressività umana, inteso come istinto di prevaricazione, provengono dal filosofi come Thomas Hobbes e Arthur Schopenhauer come natura intrinseca dell'animo umano. Su posizioni simili giunge anche Sigmund Freud nel celebre carteggio che intrattenne con Albert Einstein Perché la guerra?.

Sociologia

Per la sociologia l'aggressività è un fattore ambientale, conseguenza di contesti sociali negativi che spesso portano a comportamenti collettivi che si hanno quando migliaia di persone agiscono allo stesso modo, facendo la stessa cosa (ad esempio negli stadi).

Antropologia

Gli antropologi partono dal presupposto che l'aggressività è una predisposizione del genere umano che si manifesta nei diversi popoli in modo diverso. Il popolo eschimese, ad esempio, ha una forma di aggressività passiva, ovvero il quiquq, che si ha quando una persona viene ignorata o presa in giro e quindi isolata dal gruppo pensando che quella persona provochi del male a tutti. Per l'antropologia, quindi, l'aggressività è innata, è un comportamento che si ha dalla nascita.

Funzioni e origine dell'aggressività e manifestazioni

Le maniere in cui si esprimono le varie forme di aggressività sono molteplici, in quanto si identificano con i vari momenti della vita umana, nei quali l'individuo si trova in rapporti, temporanei o duraturi, con i suoi simili, a partire dalla primissima infanzia. Come è noto, tensioni che oppongono uno o più individui agli altri si possono sviluppare all'interno della famiglia come nella scuola, nelle competizioni sportive come nelle lotte sindacali, nelle polemiche che vedono schierati in campi avversi i partiti politici come in quelle che talvolta avvampano tra due persone che discutono di sport. Forme di aggressività sono presenti in certi sogni notturni, come nei miti, nelle leggende e nelle favole per bambini, e tutto ciò è una prova ulteriore del ruolo non trascurabile occupato dall'aggressività nella vita umana.
Allo scopo di introdurre un elemento di chiarezza nella discussione sulla natura dell'aggressività, lo psicoanalista Erich Fromm, nel suo saggio Anatomia della distruttività umana, parte da una netta distinzione:
«Dobbiamo distinguere nell'uomo due tipi completamente diversi di aggressione. Il primo, che egli ha in comune con tutti gli animali, è l'impulso, programmato filogeneticamente, di attaccare o di fuggire quando sono minacciati interessi vitali. Questa aggressione difensiva, "benigna", è al servizio della sopravvivenza dell'individuo e della specie, è biologicamente adattiva, e cessa quando viene a mancare l'aggressione. L'altro tipo, l'aggressione "maligna", e cioè la crudeltà e la distruttività, è specifica della specie umana, e praticamente assente nella maggior parte dei mammiferi; non è programmata filogeneticamente e non è biologicamente adattiva; non ha alcuno scopo e, se soddisfatta, procura voluttà»
(E. Fromm, 1975, p.20)
Quanto all'origine dell'aggressività e dell'eventuale parentela dell'uomo con gli animali sotto questo riguardo, si possono distinguere grosso modo due gruppi principali di teorie con una gamma di posizioni intermedie. Per il primo l'aggressività è un istinto che l'uomo ha in comune con gli animali; per il secondo, invece, è qualcosa di specificamente umano, tanto più se si considera l'aggressività intraspecifica (cioè all'interno della specie), che presso gli animali, tranne rare eccezioni, non ha carattere distruttivo, mentre fra gli uomini non si ferma neppure dinanzi all'omicidio, alla strage, al genocidio. Secondo i sostenitori di quest'ultima concezione, l'origine dell'aggressività degli uomini è da ricercare nella lunga storia della loro evoluzione come specie. Al primo gruppo di teorie si sogliono ascrivere anche, sempre in via di generalizzazione e accantonando perciò una serie di distinzioni secondarie, la teoria delle pulsioni di Freud e la concezione esposta da Lorenz nell'opera Il cosiddetto male (ampliata con il titolo L'aggressività, 1963).
Per quanto riguarda la teoria delle pulsioni sviluppata da Freud nel corso degli anni, bisogna ricordare che nel saggio Al di là del principio del piacere egli
«ha fatto proprio il presupposto che in ogni essere umano, in ogni cellula, in ogni sostanza vivente, siano all'opera due pulsioni: pulsione di vita e pulsione di morte. E questa seconda, Thanatos (in greco, morte), come la chiamò Freud, si rivolgerebbe sia all'esterno, apparendo quale distruttività, sia all'interno, quale forza autodistruttiva che conduce alla malattia, al suicidio o, se mescolata a impulsi sessuali, al masochismo. Non sarebbe determinata da circostanze, non sarebbe prodotta da nulla: l'uomo avrebbe soltanto la scelta di indirizzare questo impulso di distruzione o di morte contro se stesso o contro altri, trovandosi pertanto di fronte a un dilemma quanto mai tragico»
(E. Fromm, 1984, p.54)
Secondo Konrad Lorenz, l'aggressività "è il risultato di un accumulo autonomo di energia" che, anche in assenza di stimoli esterni, finisce per dar luogo a comportamenti aggressivi. Con una notevole differenza, però, rispetto agli animali, presso cui l'aggressione intraspecifica ben raramente giunge ad esiti mortali.
«I rappresentanti di una stessa specie (il fenomeno riguarda in modo particolare i vertebrati) combattono tra loro per la gerarchia, il territorio o la femmina. In generale, tuttavia, questi conflitti presentano una caratteristica davvero stupefacente, e che ne limita enormemente la pericolosità: sono cioè ritualizzati. Un comportamento aggressivo ritualizzato è formato da un insieme di elementi abbastanza stereotipati e convenzionali, come grida, esibizioni di parti corporee a effetto terrifico, movimenti alterni di avvicinamento, fuga, accerchiamento, atteggiamenti di minaccia o di resa incondizionata; ben difficilmente le armi micidiali dei contendenti, zanne, artigli, corna ecc. sono impiegate per uccidere. Il lupo vincitore non azzanna a morte il lupo vinto che gli offre, in atto di sottomissione, la gola, ma cavallerescamente permette all'antagonista di andarsene incolume. I daini cozzano le corna, ma, anche se uno degli avversari, nel corso della lotta, scopre il fianco, l'altro non gli vibrerà mai un colpo mortale in questa regione; aspetterà, invece, che il nemico ritorni in posizione frontale per riprendere l'assalto»
(G. Gelli, 1986, pp.16-17)

Psicologia

Aggressività fisiologica e patologica

Nell'aggressività fisiologica facilmente si evidenziano la causa o le cause che l'hanno provocata: un gesto, una parola, un comportamento, ostile, provocatorio, ingiusto. Qualcuno ci ha minacciato, ci ha insultato, ci ha fatto del male in modo fisico o morale. Pertanto la nostra reazione serve ad impedire che continui a tormentarci. Al contrario nell'aggressività patologica si mette in moto un tipo di comportamento difensivo, senza che vi sia stato alcun atteggiamento provocatorio o ostile da parte degli altri o un comportamento eccessivo e sproporzionato rispetto all'offesa o alla minaccia.
Nei bambini i casi più frequenti di aggressività fisiologica nascono dalla salvaguardia delle proprie cose o dei propri diritti, come la difesa dei propri giocattoli o la gelosia nei confronti dell'amore di uno o entrambi i genitori o di qualche familiare (nonni, zii).

Aggressività apparente

Il bambino può avere dei comportamenti che noi giudichiamo aggressivi ma che possono essere soltanto un modo per giocare o scoprire e capire la realtà che lo circonda (aggressività apparente) Questa pseudo aggressività il bambino la manifestano soprattutto con gli oggetti, per vedere come sono fatti dentro o nei confronti degli insetti e dei piccoli animali, per scoprire la modalità del loro movimento o per esplorare le loro reazioni. Soprattutto nei maschietti l'aggressività apparente si manifesta sotto forma di gioco o di competizione quando guerreggiano, lottano e si azzuffano così da provare o dimostrare la loro forza, la loro capacità e virilità.

Differenze di genere

Entrambi i sessi provano l'istinto aggressivo in quanto questo è un normale componente della psiche umana. La diversità sta nel diverso modo di manifestarlo e gestirlo. Gli uomini manifestano l'aggressività in modo più fisico, eclatante e immediato. Pertanto, per far del male all'altro, utilizzano il proprio corpo, mediante calci, pugni, schiaffi o armi (bastoni, coltelli, pistole e altro). In alternativa l'aggressività maschile viene espressa mediante parole offensive che possono in qualche modo colpire e far del male alla persona dalla quale hanno o pensano di aver ricevuto del danno o delle offese. Le donne, invece, esprimono l'aggressività in modo più sottile e ricercato: se bambine cercano di escludere dal gruppo la persona che intendono colpire, negano a questi la loro compagnia o la loro amicizia, parlano male di questi, attuano comportamenti ricattatori o assumono atteggiamenti da vittima in modo tale da provocare nel “nemico” sensi di colpa. Se adulte si ingegnano a togliere alla persona che intendono colpire tutto ciò alle quali questi tiene molto: il denaro, la casa, i figli, il suo onore. E anche quando intendono fare a questi del male fisico, preferiscono utilizzare altri uomini per raggiungere il loro scopo. Nei rari casi nei quali vogliono arrivare alla soppressione diretta dell'altro tendono ad usare mezzi poco cruenti, come può essere il veleno. Sia l'aggressività femminile sia soprattutto quella maschile diminuiscono notevolmente quando uomini e donne riescono ad instaurare e vivere dei solidi e soddisfacenti rapporti familiari o di coppia.

Evoluzione nel tempo delle manifestazioni aggressive

L'aggressività è presente fin dalla nascita ma si manifesta in modo diverso a secondo dell'età. Il lattante la può manifestare mordendo il capezzolo della madre, stringendo i pugnetti, rigurgitando o rifiutando il cibo; il bambino di due – quattro anni la può rivelare cercando di distruggere e far del male, sbattendo i giocattoli nel lettino, a terra o su altri bambini o adulti, che cercherà di mordere o ai quali potrà tirare e strappare i capelli. In generale nella prima e nella seconda infanzia prevale nettamente l'aggressività motoria mentre verso la fine della seconda infanzia, all'aggressività motoria si aggiunge quella verbale che tenderà nel tempo a sostituire quella motoria.Soprattutto le femminucce, in alcuni casi, ottengono lo scopo di far del male ignorando, a volte per ore e giorni, la o le persone che vogliono far soffrire. Anche i comportamenti oppositivi e negativisti nei quali il bambino si ostina o rifiuta da fare quanto richiesto dagli altri possono ottenere lo scopo di punire e far soffrire.
Con la maturazione il bambino riesce a manifestare l'aggressività soprattutto nel gioco simbolico: Come dice Spok:
“Un bambino normale impara a controllarsi a poco a poco, crescendo, attraverso le manifestazioni delle propria natura e i buoni rapporti con i genitori. A uno-due anni, quando è arrabbiato con un altro bimbo, è capace di morsicagli un braccio senza un attimo di esitazione. Ma a tre-quattro anni ha già imparato che l'aggressività violenta è una brutta cosa, però gli piace fingere di uccidere sparando ad un ipotetico indiano”.
Con il progredire dell'età, specialmente nell'età adulta, tranne i casi patologici, tutte le manifestazioni aggressive, sia fisiche sia verbali, tendono a diminuire in quanto l'essere umano, se è sufficientemente sereno ed equilibrato, riesce ad avere un miglior controllo emotivo e razionale e un maggior rispetto nei confronti della sensibilità e del benessere degli altri.

Cause

Sofferenza interiore

In tutte le età, l'aggressività può nascere da una grave sofferenza interiore causata da traumi psichici o prolungate situazioni di stress. In questi casi viene ad alterarsi, a volte per breve tempo, altre volte in modo duraturo, il rapporto con gli altri e il mondo nel suo complesso. Questi sono avvertiti come minacciosi e infidi, incapaci di accoglienza e amore. I motivi che portano a dei traumi o degli stress eccessivi possono essere i più vari: importanti conflitti familiari o genitoriali, prolungate carenze affettive, stili educativi non consoni allo sviluppo di un bambino ecc. Questi e altri motivi riescono a provocare momentanee o stabili emozioni negative con manifestazioni di insofferenza, rabbia, collera e conflittualità interiore.
Per Bollea infatti:
“L'aggressività può dare comportamenti negativi e più tardi distruttivi solo ed essenzialmente come reazione ad un conflitto esterno o interno, conflitto che, a seconda del periodo evolutivo in cui è sorto, fissa, in parte, anche per i periodi successivi la modalità dell'aggressività propria di quel periodo”.
Addirittura, in alcuni casi, la sofferenza psicologica e il conflitto interiore che ne consegue, spingono periodicamente queste persone a provocare gli altri, per ricevere da questi delle brusche reazioni, le quali, in qualche modo, possano giustificare i loro comportamenti violenti o aggressivi. Comportamenti che avvertono come necessari per dar sfogo alle intense pulsioni interiori così da ritrovare un pur scarso, precario e momentaneo equilibrio.

Maggiore suscettibilità

Caratteristica dei bambini ma anche degli adolescenti e adulti aggressivi è quella di essere notevolmente suscettibili a ogni parola, atteggiamento o comportamento altrui non consono ai propri bisogni. Questa notevole suscettibilità tende a provocare facile collera e irritazione con conseguenti esplosioni di manifestazioni aggressive e/o violente.

Bisogno di autonomia e indipendenza

Nel bambino e nell'adolescente, il bisogno di affermare la propria volontà, personalità, autonomia e indipendenza può manifestarsi sotto forma di aggressività verso il mondo degli adulti colpevole, a parer loro, di volerli mantenere in una situazione di sudditanza. In questi casi il bambino e l'adolescente non hanno alcun risentimento personale verso delle persone ben precise: insegnanti, genitori e adulti che siano, ma esprimono soltanto il loro bisogno di affrontare situazioni e ambienti sconosciuti e portare a termine nuove conquiste ed esperienze senza essere eccessivamente limitati o peggio bloccati. In questi casi compito degli adulti non è quello di contrastare ogni iniziativa dei minori ma di illuminare e guidare in modo affettuoso tali iniziative, aiutandoli nelle loro scoperte e nelle esperienze utili e/o necessarie.

Ricerca di dialogo, attenzione e affetto

Soprattutto nei bambini e negli adolescenti i comportamenti aggressivi possono nascondere la necessità di comunicare alle persone che hanno cura di loro, la necessità di ottenere più attenzione, dialogo, comunicazione e scambio affettivo. In questi casi, l'aggressività verbale o fisica assume il significato di urlare in modo scomposto le proprie esigenze che, per troppo tempo, sono state trascurate o non sufficientemente considerate e accettate.

Emulazione

Non bisogna sottovalutare la presenza di comportamenti aggressivi dettati da un bisogno di emulare individui reali, ma anche uno o più personaggi immaginari presenti nei film, nei cartoni animati, nei fumetti o nei video giochi.
Nonostante l'esempio negativo dato da persone reali come può essere un genitore, un amico, un conoscente il quale assume, davanti al minore, comportamenti prevaricanti e violenti, sia sicuramente più incisivo, non sono affatto da sottovalutare i messaggi che arrivano in maniera frequente dai mass media e dai vari strumenti elettronici. È stato dimostrato come i minori, ma anche gli adulti, soprattutto se questi ultimi sono psicologicamente disturbati o immaturi, sono decisamente influenzati da questi messaggi carichi di violenza.
Per Tribulato:
“Spesso, senza che i genitori, troppo impegnati o assenti, riescano a fare da filtro, i minori sono in contatto con delle rappresentazioni nei quali l'aggressività e l'arbitrio la fanno da padroni. In molte trasmissioni della tv ormai da molti anni prevalgono modelli di eroi senza paura ma anche senza pietà e senza alcuna disponibilità all'ascolto e alla comprensione dell'altro. L'adulto da imitare è veloce, forte, sicuro di sé, ma molto spesso è anche decisamente violento e privo di ogni sentimento di pietà nei confronti dei “nemici”. Agli spettacoli della tv e dei film si aggiungono i videogiochi, dove distruggere l'altro, con tutte le armi a disposizione, è quasi sempre la regola base del gioco, per cui alla lunga l'aggredire e il distruggere diventano atteggiamenti “normali”, piacevoli e divertenti nella vita dei minori.”
Per Andreoli V.
"Non esiste dubbio alcuno che la violenza rappresentata abbia un effetto immediato di promozione e agisca - in senso generale - sulla voglia di violenza".


lunedì 26 aprile 2021

Aggressione




L'aggressione è un atto di violenza esercitata in modo palese nei confronti di qualcuno. Si tratta di un comportamento intenzionale e spesso dannoso che ha lo scopo di infliggere dispiacere. Questo tipo di comportamento è pressoché universale negli animali; negli esseri umani può essere associato ad un atteggiamento di aggressività, inteso come contrario di sottomissione.

Caratteri generali

Nelle definizioni comunemente impiegate nelle scienze sociali e nelle scienze comportamentali. L'aggressione è una sorta di risposta da parte di un individuo che offre qualcosa di spiacevole ad un'altra persona. Alcune definizioni però specificano il fatto che da parte dell'individuo che compie un'aggressione ha l'intenzione di danneggiare chi subisce l'aggressione. L'aggressione differisce da quella che viene definita assertività, anche se i due termini vengono usati in maniera intercambiabile dai profani e in senso non scientifico (ad es., si dice "un venditore aggressivo" per alludere a qualcuno che cerca, magari in modo invadente/insistente, ma non certo aggressivo, di convincere assertivamente l'interlocutore circa la bontà del proposto acquisto).
In etologia l'aggressione è un importante ambito di studio e riguarda l'interazione e l'evoluzione degli animali negli ambienti naturali. Essa può, in questi contesti, assumere diversi atteggiamenti rappresentati da contatti fisici (morsi, colpi, spinte), ma anche segnali stereotipati come espressioni facciali, vocali, rilascio di prodotti chimici e cambiamenti di colorazione.

Tipologia

L'aggressione può assumere diverse forme, che possono comprendere la violenza fisica, verbale e non, l'aggressione difensiva, quella predatoria, quella di isolamento indotto, quella relazionale (diffusa tra gli adolescenti, che include il bullismo), quella territoriale, l'aggressione emotiva, quella legata al sesso, quella di dominanza, quella tra maschi, quella parentale, quella di ritorsione come risposta a una provocazione, quella strumentale (come una rapina) e quella discriminatoria (basata, per esempio, su pregiudizi razziali). Ci sono inoltre due sottotipi di aggressione: quella controllata e quella impulsiva; in questo secondo caso essa può essere il frutto di azioni incontrollabili che sono anche indesiderate e inappropriate.

La rilevanza giuridica

L'aggressione può racchiudere gli elementi costitutivi di diverse forme di reato in base al metodo e ai mezzi con cui essa è esercitata: si può parlare infatti di omicidio, lesioni personali, violenza privata, minaccia, ecc. Nel diritto internazionale si intende come aggressione la violenza eseguita da uno Stato contro un altro fatta mediante forze preponderanti e senza preavviso: a tal proposito si parla infatti di aggressione contro la sovranità, contro una integrità territoriale o contro l'indipendenza politica di un ente. Essa può essere evitata tramite un patto di non aggressione.
La definizione operativa di aggressione può essere influenzata da opinioni morali e politiche. In tal senso, un esempio può essere dato dalla visione morale assiomatica chiamata principio di non aggressione.

domenica 25 aprile 2021

Street fighting




La rissa da strada o street fighting è un termine usato per definire un tipo di combattimento corpo a corpo, quasi sempre illegale, che avviene in un luogo pubblico, fra due o più individui o gruppi di persone.

Caratteristiche

Il termine denota un tipo di combattimento generico in cui spesso i combattenti non sono atleti di arti marziali/sport dacombattimento. La rissa per strada come attività reale è relativamente infrequente.
Lo street fighting può essere anche inteso come arte marziale, o meglio, insieme di varie tecniche di arti marziali diverse con lo scopo di raggiungere il proprio obiettivo nel modo più semplice e veloce.

Conseguenze penali

Ogni forma di violenza può generare una azione legale: violenze domestiche, sul posto di lavoro, ecc... possono avere diverse conseguenze di carattere penale, come ad esempio nel caso di lesioni personali. La rissa di strada può anche essere preordinata a causare disordine civile per fini politici ed i tumulti relativi possono quindi essere perseguiti anche con l'accusa di cospirazione e terrorismo.

sabato 24 aprile 2021

Violenza da strada

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Per la stragrande maggioranza delle persone che leggono questo post, la violenza è facile da prevenire senza ricorrere all'autodifesa fisica. Inoltre, i mezzi non fisici hanno un livello molto più basso di rischio e maggiori possibilità di successo. Potrebbe non sembrare così, specialmente per coloro che sono caduti vittima di un indottrinamento fuorviante nelle arti marziali e del marketing che si è sviluppato intorno al settore dell'autodifesa, ma spero che il seguente post, che tratta di consapevolezza e prevenzione, renderà più chiaro l'argomento trattato. La maggior parte delle persone non ha bisogno di imparare le arti marziali per evitare di essere attaccate.
Ci sono molte idee sbagliate sulla violenza fisica e lo scopo di questo post è di aiutare a far luce sulla natura della violenza e dei comuni problemi in cui chiunque può incorrere nell'applicazione dei principi dell'autodifesa fisica e dell'addestramento alle arti marziali.

La natura della violenza fisica

La vera violenza è veloce, dinamica e caotica . Almeno uno dei due contendenti nello svolgimento di uno scontro fisico sarà più motivato del suo avversario a ferire, e nessuno dei due saprà cosa accadrà dopo. Non è quello che si vede nella stragrande maggioranza dei film che vediamo o che ti insegnano nella maggior parte dei corsi di arti marziali.
In una qualsiasi aggressione in cui siamo coinvolti ci possiamo difendere legalmente, il nostro avversario avrà probabilmente un vantaggio significativo su di noi, o almeno un vantaggio da noi percepito. Ce ne saranno più di uno, avrà delle armi e/o sarà più grande, più forte e più veloce di noi. Se non pensasse di avere un vantaggio, avrebbe scelto un'altra vittima. La vera violenza è brutta, ed è meglio evitarla o prevenirla.

Miti sulle arti marziali

La maggioranza dei corsi in palestra di arti marziali oggi non prepara i praticanti ad affrontare dei veri e propri assalti. Non affrontano gli argomenti sul come evitare, la consapevolezza e la prevenzione, non hanno strategie efficaci per affrontare un conflitto o metodi di allenamento che funzionano, le tecniche sono fini a se stesse per giustificare lo studio di un'arte o per lo sport piuttosto che per causare il massimo danno al nostro avversario, e questo porta il praticante a non riuscire ad affrontare un avversario in possesso di armi improprie o avversari multipli. Tutti gli allenamenti si svolgono in stanze ben illuminate, su superfici pulite e piane, con nulla in cui si possa inciampare, e in abiti che rendono i movimenti comodi. Gli attacchi sono generalmente eseguiti con una "tecnica corretta". Solitamente sono attacchi singoli e facili da identificare, le tecniche si susseguono una dopo l'altra, e il "cattivo" non reagisce dopo che il suo attacco iniziale è stato bloccato.
Gli attacchi veri si verificano in luoghi reali, non in stanze da addestramento vuote . All'aperto ci sono cordoli su cui inciampare, macchine e gradini su cui cadere, muri e angoli da infilare, e posti buoni dove un attaccante può nascondersi per sorprenderti. Ci potrebbe essere uno spazio limitato in cui potersi muoversi, con mobili su cui cadere o urtarci. Ci possono essere oggetti dappertutto che il nostro aggressore può usare sia per picchiarci o pugnalarci. Il tuo attaccante/i avrà molto probabilmente un'arma in ogni caso con sè. È probabile che l'aggressione avvenga in una situazione di semioscurità e non sarai quindi in grado di vedere bene. Potresti anche non renderti conto del fatto che il tuo aggressore abbia un'arma o meno, anche dopo che sei stato pugnalato, squarciato o picchiato con essa. Una vera aggressione generalmente comporta una grande quantità di movimento e caos. Non assomiglia per nulla a ciò per cui la maggior parte degli artisti marziali si allena.
Gli sport marziali (boxe, thai boxing e jiu jitsu brasiliano per esempio) fanno un buon lavoro di preparazione durante l'apprendistato per affrontare un avversario non del tutto cooperativo. Ciononostante, si concentrano su combattimenti "uno contro uno", con tecniche e intervalli prestabiliti, tra due partecipanti disponibili, senza armi e in spazi puliti progettati per combattere. Molte arti marziali tradizionali sostengono di concentrarsi maggiormente sull'autodifesa, ma all'atto pratico non riescono a preparare praticanti pronti a confrontarsi contro avversari non cooperativi che li stanno contrattaccando. In realtà, sebbene si possano usare tecniche potenzialmente pericolose durante l'addestramento, gli studenti di questi stili si trovano ad essere ancora meno preparati ad affrontare un attacco reale rispetto a quelli che si allenano negli sport marziali, a causa della loro mancanza di familiarità negli ambienti non cooperativi.

Gli scontri da strada sono per i perdenti

Scrivere con precisione sulla violenza è una sfida. Da un lato, è importante spiegare la natura della violenza e i problemi che chiunque può trovare con la maggior parte delle arti marziali e l'allenamento all'autodifesa. D'altra parte, i discorsi spaventosi e complessi possono essere altrettanto dannosi e controproducenti. La violenza è negativa e distruttiva e può far diventare una persona paranoica o ossessionata dal crimine riducendo di conseguenza la sua qualità della vita. Puoi evitare o prevenire un attacco o difenderti fisicamente senza essere talmente ossessionato dalla violenza da indossare dei pantaloni mimetici e portandoti tre coltelli in bagno.
È facile per una persona normale apprendere l'autodifesa e lasciare che questa gli cambi la sua vita in peggio. I pensieri, le parole e le azioni negative producono sentimenti negativi e rendono il mondo un posto peggiore per tutti. Pensieri positivi, parole e azioni fanno il contrario. Rendono il mondo un posto migliore per tutti. La violenza fine a se stessa nopn è mai una bella cosa, non è necessario comportarsi da duro o immaginare di appartenere ad una forza pseudo-speciale operativa per difendersi. In realtà, un simile comportamento ci renderà probabilmente un obiettivo più attraente per le persone che danno l'inizio ad un problema.
Ci sono due approcci molto diversi che puoi adottare per difenderti da solo. Puoi agire con l'intenzione di difenderti, oppure puoi agire con l'intenzione di ferire un'altra persona. Entrambi gli approcci possono funzionare per autodifesa. Ma il primo ti renderà una persona più felice e più simpatica. Il secondo ti renderà una persona negativa, paurosa e paranoica.


venerdì 23 aprile 2021

Confucio

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Confucio (cinese 孔子 Kǒng Fūzǐ, Wade-Giles: K'ung-fu-tzu; 28 settembre 551 a.C. – 479 a.C.) è stato un filosofo cinese.
Confucio è stato il primo ideatore e promotore di un pensiero originale, inedito nel panorama culturale cinese del VI-V secolo a.C.: il suo insegnamento può essere sintetizzato come "il tentativo di elaborare una concezione etica dell'uomo nella sua integralità e universalità", vale a dire che Confucio tentò di fornire una serie di indicazioni relativamente a quale sia il modo migliore in cui l'uomo può condurre la sua esistenza, tenendo conto di tutti gli aspetti più importanti della natura umana. Ciò comportò non soltanto l'individuazione e la ridefinizione del significato di che cosa possa significare di preciso "essere umani", ma anche la proposta da parte di Confucio di un nuovo modello per la realizzazione di sé, giudicato compatibile con l'edificazione di una comunità umana prospera e armoniosa.
L'insegnamento di Confucio si è rivelato determinante per lo sviluppo del pensiero cinese: è lecito affermare che dopo la sua morte nessuna delle scuole di pensiero, delle correnti filosofiche e dei pensatori che si susseguirono in Cina poté prescindere dal confrontarsi con quella che si presenta come una vera e propria "figura fondatrice".
Finché fu in vita Confucio poté contare su una discreta cerchia di discepoli, ma fu in particolare dopo la sua morte che i suoi insegnamenti attrassero una lunga serie di pensatori, letterati, studiosi, i quali approfondirono e rielaborarono i temi del suo insegnamento, dando vita a un movimento di pensiero che la storiografia cinese etichettò a posteriori come Confucianesimo.
L'insegnamento di Confucio ha avuto un grandissimo impatto sullo sviluppo della cultura, della storia e degli stili di vita di quei paesi asiatici in cui si diffuse, a partire dalla Cina per proseguire con la Corea, il Giappone e il Vietnam.
Il principale testo di riferimento per avvicinarsi al pensiero di Confucio sono i Dialoghi (Lùnyǔ 論語), una raccolta di aforismi e frammenti attribuiti al Maestro che in realtà è il frutto della selezione operata dai suoi discepoli delle generazioni successive.
Il pensiero confuciano fu introdotto in Europa nel XVII secolo ad opera dei gesuiti che nel corso delle prime missioni in Cina si impegnarono nello studio della lingua cinese e nella traduzione di alcune opere della letteratura cinese classica. Al loro lavoro si deve la prima latinizzazione del nome cinese in Confucius.

Biografia

Confucio visse in Cina nell'ultima parte del Periodo delle primavere e degli autunni (781 a.C. – 477 a.C.), un'epoca di anarchia, d'instabilità politica e di diffusa corruzione, dominata dalle guerre tra stati feudali, che – senza soluzione di continuità – si trascinerà nell'epoca successiva, il Periodo dei regni combattenti (453 a.C. - 221 a.C.), che culminerà con l'unificazione della Cina sotto un unico sovrano.
Secondo la tradizione, Confucio nacque nello Stato di Lu (ora parte dell'odierna provincia di Shandong) nel 551 a.C., durante il Periodo delle primavere e degli autunni. In quest'epoca si situa anche l'inizio del movimento filosofico delle Cento scuole di pensiero.
Sempre secondo la biografia tradizionale, riportata da Sima Qian nelle sue Memorie di uno storico, il padre di Confucio, Shuliang He, apparteneva ad una famiglia nobile impoverita discendente dalla dinastia Shang e aveva sposato a sessantacinque anni, in seconde nozze, una fanciulla di quindici anni, Yan Zhengzai. Un matrimonio del genere, secondo le consuetudini dell'epoca, era da considerarsi un'unione illecita (yěhé 野合). Secondo alcune leggende tardive, la nascita di Confucio fu accompagnata da eventi straordinari (il neonato fu visitato da dragoni ed esseri divini e si sentì una musica celestiale), ma tali leggende sono respinte dai confuciani ortodossi, di tendenze razionaliste. Confucio perse il padre all'età di tre anni, e fu allevato dalla madre, che riuscì ad assicurargli un'istruzione anche se la famiglia viveva in povertà.
Non ci sono notizie certe sulla vita di Confucio. La sua ascesa sociale lo pone nell'ambito della classe emergente Shì (), a metà tra la vecchia nobiltà e la gente comune, alla quale, come Confucio, appartenevano uomini di talento ma di origini modeste che cercavano di raggiungere una posizione elevata grazie alle proprie doti intellettuali. Egli stesso, riferiscono i Dialoghi, vantava le sue umili origini che lo avrebbero spinto a sviluppare le sue capacità. Molto della vita del filosofo è pervenuto dalla raccolta postuma dei "Detti di Confucio", redatta dai suoi discepoli attorno al 411 a.C. – 404 a.C., seppure la datazione della compilazione è tuttora discussa. In tale opera è esposto il pensiero filosofico – morale, così come si illustrano i precetti dettati dal maestro.
Infine, vari capitoli trattano della vita privata di Confucio. Si legge che dettò i suoi pensieri ai suoi discepoli molto avanti negli anni (capitolo 7.5), che era moderato e parco (capitolo 7.16), che seguiva una vita molto appartata e modesta preferendo la campagna alla città (capitolo 7.19), che digiunava spesso e volentieri (capitolo 7.13) e mangiava procacciandosi il cibo da sé e cucinandolo di persona (capitolo 7.27), che amava insegnare non ricevendo compenso ma unicamente qualche piccola offerta in natura (capitolo 7.29), che la scuola attirava molti adepti fino a diventare elitaria (capitolo 8.9) e molto additata ad esempio di educazione (capitoli 8.13 - 8.17), ma che al contempo dava fastidio ai potenti che emarginarono il maestro e la scuola perché davano fastidio (capitolo 9.2), tanto che dovettero fuggire ed il maestro stesso rischiò la vita (capitoli 9.5 e 11.23), che furono costretti a ripiegare su umili e miseri mestieri pur di vivere (capitoli 9.6 - 9.7), che vissero per un certo periodo in esilio fuori dalla Cina (capitolo 9.14), ma anche che la scuola divenne negli ultimi tempi assai interessante per le autorità di diversi stati feudali in cui al tempo la Cina era suddivisa (capitolo 11.7) e che il maestro nell'ultima decade di vita divenne ambasciatore e rispettato uomo di corte (capitoli 10,2 - 10.4; capitoli 10.15 - 10.20), nonostante la morte del figlio Li (capitolo 11.8) e dell'allievo prediletto Yan Hui (capitoli 11.7 - 11.11) ed il tradimento dell'allievo Rau Qin (capitolo 11.17). Anche molti dei suoi allievi – vi si legge – fecero carriera sia durante la vita del maestro, che dopo la sua dipartita (capitoli 11.24 - 11.25). Secondo Mencio (370 a.C. – 289 a.C.), Confucio si sarebbe occupato dell'amministrazione di negozi e di pascoli e bestiame.
Probabilmente svolse compiti amministrativi per il governatore della provincia. Sima Qian riferisce che dopo i cinquant'anni Confucio divenne ministro della giustizia del duca di Lu, ma fu in seguito costretto a dimettersi ed andare in esilio. Iniziò quindi un lungo viaggio attraverso gli Stati di Wei, Song, cercando impiego presso i governanti come consigliere.
Tornato nello Stato di Lu, trascorse gli ultimi anni dedicandosi agli studi e all'insegnamento, circondato da un numero crescente di discepoli.

Insegnamenti

La visione di Confucio si fondava sui principi di un'etica individuale e sociale basata sul senso di rettitudine e giustizia (), sull'importanza dell'armonia () nelle relazioni sociali, codificate secondo precise norme etiche e rituali () mutuate dalla tradizione culturale dell'antichità. L'osservanza di tali norme consente di disciplinare le relazioni umane e garantisce l'ordine sociale mediante il rispetto delle gerarchie familiari e sociali. Grande importanza viene data ai sentimenti di lealtà () ed empatia nei confronti del prossimo, all'apprendimento inteso come percorso di studio, pratica e riflessione, e alla messa in pratica delle conoscenze apprese per il miglioramento di sé e della comunità umana.
Confucio non ha lasciato opere scritte di suo pugno. Il suo insegnamento è raccolto nei Dialoghi, una raccolta di frammenti di conversazioni, aneddoti e insegnamenti che hanno come protagonista il Maestro stesso e alcuni dei suoi primi discepoli. Questi episodi, con ogni probabilità inizialmente tramandati solo in forma orale, sono stati messi per iscritto dai discepoli delle generazioni successive, fino a prendere l'assetto definitivo e costituire il libro noto ancora oggi come I Dialoghi di Confucio (che si può far risalire con certezza perlomeno al III secolo a.C).
Il testo dei dialoghi è costellato di enunciazioni di principi morali, esempi di buona condotta, brevi aneddoti e dialoghi composti di poche battute. Confucio non proponeva un insegnamento sistematico, ma invitava i suoi discepoli a riflettere profondamente su se stessi e sul mondo, approfondendo la conoscenza del passato da cui trarre insegnamento tramite lo studio degli antichi testi. Egli si presentava come un "messaggero che nulla ha inventato", il cui compito è quello di trasmettere la sapienza degli antichi. Grande importanza è data allo studio: il primo frammento con cui inizia il libro si apre proprio col carattere cinese che indica lo studio, xué (cinese semplificato: , cinese tradizionale: ).
Proprio l'amore per lo studio e la volontà di migliorarsi sono gli unici requisiti che Confucio pone agli altri per divenire suoi discepoli. Questa apertura dell'insegnamento a chiunque, senza distinzioni di classe o di reddito, è uno dei motivi per cui in Cina egli è noto come il primo "Maestro" della tradizione cinese (inteso nel senso stretto di insegnante). È d'obbligo precisare che sebbene di famiglia non più ricca, Confucio apparteneva comunque alla piccola nobiltà, e il suo insegnamento era orientato alla formazione di futuri uomini di potere. Ciò non toglie che nei termini in cui il Maestro lo espresse, il suo pensiero fosse formalmente aperto a tutti, non solo ai figli della nobiltà.
Confucio proponeva ai suoi discepoli un cammino di perfezionamento della propria persona, un percorso di miglioramento delle proprie qualità morali e umane, al fine di imparare a condurre la propria vita in maniera corretta e virtuosa, imparando a comportarsi in maniera opportuna in qualunque situazione, mettendo in pratica in ogni momento gli ideali di giustizia e rettitudine che secondo Confucio sono le qualità peculiari che distinguono l'uomo da tutti gli altri esseri viventi. Il modello che Confucio proponeva è quello dell'uomo virtuoso, il jūnzi (君子, talvolta tradotto come "uomo superiore". Al tempo di Confucio questo termine indicava esclusivamente la nobiltà di sangue, ma egli ne trasformò il significato, rendendolo sinonimo di nobiltà d'animo). Questo termine indica l'ideale confuciano dell'uomo che ha raggiunto la perfetta padronanza di tutte le norme di condotta che regolano la propria vita personale e sociale, che sa come comportarsi in ogni situazione, conosce il giusto modo di comportarsi e di prestare il dovuto rispetto nei confronti delle persone che gli sono intorno, andando dai familiari più stretti sino al sovrano in persona.
L'insegnamento di Confucio non è di tipo sistematico: ciò significa che il maestro non procede a partire dalla definizione di principi filosofici o morali (sebbene nei dialoghi a più riprese i discepoli chiedano a Confucio delle definizioni esplicite dei concetti di cui egli si serviva quali mansuetudine, rettitudine, benevolenza, - domande cui il Maestro risponde ogni volta eludendo la richiesta di una definizione univoca), ma preferisce invece proporre dei modelli di comportamento. L'insegnamento di Confucio fa perno sull'esempio. Il Maestro fa l'esempio di se stesso, ma invita i discepoli a guardare molto più indietro nel tempo e a ispirarsi ai grandi saggi e re del passato, figure mitiche della tradizione cinese: maestosi re, fondatori di dinastie, ecc. Secondo Confucio sarebbero queste figure storiche (nell'ottica in cui le vede la tradizione cinese esse sono "storiche", ma si tratta spesso di figure ammantate di un'aura mitica, come i fondatori della dinastia Zhou) che incarnano gli ideali di virtù e corretta condotta, esempi da seguire a cui rifarsi per ritrovare un cammino degno dell'uomo.
Secondo Confucio, sebbene i grandi del passato siano morti da secoli, le loro gesta rimangono fedelmente immortalate nelle pagine dei testi classici della tradizione cinese. Essi sono il luogo d'eccellenza su cui deve avvenire la formazione dell'uomo virtuoso. Per avere accesso a questi testi, il passaggio fondamentale e indispensabile diviene quello dello studio. Da qui l'enfasi confuciana per l'apprendimento, inteso come un processo di formazione culturale e morale, che passa per l'accesso alla letteratura della grande tradizione cinese e che si deve compiere nella messa in pratica quotidiana delle norme morali assimilate ispirandosi agli episodi della vita dei re e saggi del passato. Il rapporto con la tradizione e il passato (intesi in chiave storica e culturale) è un elemento chiave nel pensiero di Confucio, e uno dei motivi per cui si attribuisce al Maestro stesso l'opera di canonizzazione dei testi classici della tradizione cinese. Ciò significa che alcuni di quelli che sono oggi considerati Classici del pensiero cinese di epoca pre-imperiale sarebbero rimasti tali proprio grazie al fatto che Confucio stesso li indicò come testi di importanza capitale per la formazione culturale e morale dell'uomo. La tradizione ha attribuito a Confucio l'edizione e la cura dei Cinque Classici, ma non esiste certezza documentale che permetta di ricollegare direttamente l'intervento di Confucio su alcuno di questi testi, alcuni dei quali sono comunque direttamente citati dal Maestro nei Dialoghi.
La messa in pratica delle qualità morali apprese attraverso lo studio coincide con l'impegno a condurre virtuosamente la propria esistenza, investendo di quest'aura morale tutte le proprie relazioni umane. In questo modo la virtù () si può diffondere per cerchi concentrici, prima nella cerchia ristretta dei propri familiari più intimi, e poi a distanza crescente, fino a includere l'intera comunità umana. In sostanza, si tratta di porre le proprie virtù e qualità morali e umane al servizio della collettività, per garantire il miglioramento e l'armonizzazione delle relazioni tra tutti i suoi componenti, secondo le norme rituali codificate dalla tradizione. Da qui si capisce come questo modello che vede l'intellettuale porsi al servizio della comunità umana potrà diventare l'elemento chiave per la formazione culturale e morale e la definizione del ruolo e dello scopo di un intero ceto di funzionari, burocrati e amministratori durante i successivi secoli delle dinastie imperiali.Solo uomini.
Secondo Confucio, il sovrano che avesse saputo conformare la propria condotta alle qualità morali tramandate dalla tradizione, si sarebbe posto nell'alveo dei grandi re del passato, e avrebbe saputo unificare sotto il proprio trono i vari popoli ricorrendo non alla forza delle armi, ma alla potenza della virtù che sarebbe irradiata dalla sua stessa persona, e che avrebbe portato le popolazioni a seguirlo spontaneamente in quanto espressione vivente di un modello di virtù e benevolenza, capace di garantire prosperità al suo popolo. Secondo Confucio questa sarebbe stata la vera soluzione allo stato di guerra permanente che imperversava durante il periodo dei Regni Combattenti. Per esprimere questa sua convinzione egli si servì del concetto di Mandato del cielo (天命 pinyin: Tiānmìng), termine che indica il fatto che chi si trova sul trono imperiale è ivi seduto in quanto gode del favore del cielo, e che eventuali cacciate di dinastie e insediamenti di nuovi sovrani vanno letti a posteriori come l'espressione del venir meno del favore del Cielo nei confronti della dinastia sconfitta, e la nuova approvazione del Cielo nei confronti di quella vittoriosa. In passato ci si era serviti di questo termine per indicare il diritto di una dinastia al mantenimento del potere su base ereditaria, salvo che essa non venisse spodestata con la forza da una forza esterna. Al contrario, l'interpretazione confuciana del Mandato del cielo era innovativa, poiché egli pensava ad un trono sul quale si sarebbero succeduti sovrani scelti sulla base della loro statura morale, non della parentela di sangue, capaci di diffondere la virtù fra il popolo senza il bisogno di leggi dure e restrittive.
Come è noto, il pensiero di Confucio non godette di molto riconoscimento e successo nell'ambito delle corti feudali nell'epoca in cui visse il Maestro, ma divenne un elemento sempre più importante nel panorama culturale cinese con il passare dei secoli, specie dopo la fondazione della dinastia Han.

Discepoli

Confucio ebbe molti discepoli e seguaci, in Cina e in Estremo Oriente.
I discepoli di Confucio e il suo unico nipote, Zi Si, assicurarono continuità agli insegnamenti filosofici del maestro dopo la sua morte. Pur basandosi sul pensiero etico e politico confuciano, due dei suoi seguaci più celebri, Mencio (IV secolo a.C.) e Xunzi (III secolo a.C.) ne enfatizzarono aspetti radicalmente diversi tra loro, anche sulla questione dell'autoritarismo.
Durante la dinastia Song, Zhu Xi (1130-1200) rinnovò il confucianesimo con idee mutuate dal taoismo e dal buddhismo. Il rinnovamento operato da Zhu Xi divenne in seguito un'ortodossia incontestata. Solo con l'avvento della Repubblica popolare cinese si è abolito l'insegnamento dei Quattro Libri e dei Cinque Classici confuciani.

Il pensiero confuciano

Durante la dinastia Han (206 a.C.–220 d.C.) il pensiero di matrice confuciana godette di una considerazione assai preminente rispetto ai pensatori le cui dottrine esprimevano temi legisti o taoisti, al punto che durante il regno dell'imperatore Wu lo studio dei Classici ricevette un grande impulso.
Sotto l'impulso di illustri interpreti dell'originale pensiero di Confucio, quali furono Mencio e Mozi, si assistette allo sviluppo di una vera e propria corrente di pensiero, dotata di un corpus canonico di testi di riferimento, che si arricchirono nel corso dei secoli di decine e decine di eruditi commentari.
Gli imperatori Cinesi si avvalsero del pensiero confuciano per costruire una ideologia funzionale alla gestione dello stato imperiale: i precetti e i testi del Confucianesimo divennero il fondamento ideologico comune di intere generazioni di burocrati e funzionari imperiali, e la sua concezione dei rapporti tra sudditi e sovrano, e più in generale tra l'uomo colto e la comunità in cui egli si trova ad operare, influenzarono profondamente l'intera società cinese.
Dopo alcuni secoli, Confucio stesso venne divinizzato, e gli vennero tributati onori e riti sacrificali.

Nomi

  • Confucio alla nascita si chiamava 孔丘 (Kǒng Qiū). è un nome di famiglia (l'equivalente del nostro cognome) piuttosto comune in Cina. Il suo nome di cortesia era 孔仲尼 (Kǒng Zhòng Ní).
  • In Cina è noto come 孔夫子 (Kǒng Fūzǐ, Wade Giles: K'ung fu-tzu) e 孔子 (Kǒngzǐ, Wade-Giles: K'ung-tzu), alla lettera maestro Kong. I due suffissi che seguono il nome di famiglia sono un termine onorifico che si può infatti tradurre con "maestro", in segno di riverenza e rispetto.
  • Il termine latino Confucius è la forma latinizzata di Kong Fuzi, pronuncia approssimativa dei caratteri 孔夫子 utilizzata all'epoca delle prime missioni gesuite in Cina. Il primo utilizzo documentato di questo termine latino risale al 1687, anno in cui vengono date alle stampe le traduzioni latine di alcuni classici della tradizione confuciana. Da allora questa forma latina si impose nei paesi occidentali, finendo per diventare di uso comune ancora oggi.
  • I nomi postumi più famosi attribuiti a Confucio nel corso della storia cinese sono:
    • 褒成宣尼公 (Bāochéngxūan Ní gōng), il primo nome postumo (I secolo d.C.)
    • 至聖先師 (至圣先师, Zhìshèng xiānshī), oppure separatamente 至聖 (至圣, Zhìshèng) e 先師 (先师, Xiānshī);
    • 萬世師表 (万世师表, Wànshì shībiǎo).

Genealogia

L'albero genealogico della famiglia Kong è tra i più lunghi del mondo. La successione generazionale di padre in figlio sarebbe stata registrata fin dalla morte di Confucio: stando ai risultati dell'agenzia che tiene traccia della discendenza della famiglia Kong, nel 2015 si sarebbe giunti alla 83sima generazione dopo Confucio. Appartenenti alla famiglia Kong vivono ancora oggi a Qufu, sua città natale, ma molti rami sono sparsi per altre provincie della Cina o in altri stati quali la Corea del Sud. Un importante ramo della famiglia Kong è emigrato a Taiwan dopo le vicende della guerra civile cinese.