Da quando Bruce Lee suggerì che «non esiste un solo modo per fare bene una cosa», molte arti marziali hanno cercato di interpretare il suo pensiero. Tuttavia, spesso si fraintende il nucleo filosofico del Jeet Kune Do, e questo fraintendimento ha generato una mentalità diffusa, che può essere definita un errore metodologico. In questo post voglio analizzare questo errore, spiegando come il pensiero di Lee vada ben oltre la semplice somma di tecniche di diverse discipline.
Il Jeet Kune Do nasce dall’esigenza di superare i limiti degli stili tradizionali di Kung Fu, spesso chiusi e incapaci di adattarsi a scenari imprevedibili. Bruce Lee osservò che molti sistemi marziali funzionano solo contro due tipologie di avversario:
L’aggressore prevedibile: colpi singoli, lenti e telegrafati, privi di strategia e protezione. Questo tipo di avversario è quello a cui le tradizioni spesso si sono adattate, sviluppando tecniche e forme precise. Purtroppo, questa simulazione raramente corrisponde alla realtà di strada: risse tra tifoserie, scippi e aggressioni improvvise presentano variabili che i sistemi chiusi non prevedono.
L’aggressore “endogamico”: termine derivato dall’antropologia, adattato alle arti marziali per indicare avversari tecnicamente simili al praticante. Ad esempio, un praticante di Wing Chun che affronta un altro praticante della stessa arte avrà a che fare con tecniche note e prevedibili, proprio come succede nel Kumitè del Karate o nel Chi Sao del Wing Chun. In questi casi, i sistemi tradizionali sono perfettamente adattati. Il problema emerge quando l’avversario non rispetta queste regole, usando tecniche o strategie estranee al sistema del praticante.
Lo scopo del Jeet Kune Do era quindi chiaro: ampliare l’orizzonte del combattimento, preparare il praticante a gestire avversari non regolamentati, variabili e imprevedibili. Per farlo, Bruce Lee suggeriva di studiare altre arti marziali – Boxe, Muay Thai, MMA, Brazilian Jiu-Jitsu – senza però limitarsi a replicarle pedissequamente.
Qui nasce l’errore più comune tra chi studia Jeet Kune Do oggi: la somma matematica delle arti marziali. Molti praticanti credono che acquisire tecniche da discipline diverse equivalga a creare il proprio Jeet Kune Do. In pratica: si studia Boxe come un pugile, Muay Thai come un thai boxeur, MMA come un lottatore, senza integrare realmente queste conoscenze in un unico sistema coerente.
Questo approccio è metodologicamente sbagliato perché il Jeet Kune Do non è finalizzato a combattere su un ring o in una gabbia, ma a gestire situazioni reali, imprevedibili e senza regole. Allenarsi come se fossimo in contesti regolamentati significa dimenticare l’obiettivo principale: la difesa personale efficace e adattabile.
Un esempio chiaro: se studio Boxe senza considerare calci o colpi al basso ventre, applicherò tecniche efficaci solo contro avversari limitati. Se studio Muay Thai senza protezione adeguata o equilibrio difensivo, rischio di esporre vulnerabilità fondamentali in contesti di strada. Se studio MMA concentrandomi solo sul combattimento a terra, dimentico la realtà di superfici dure, gradini o eventuali complici dell’aggressore.
Per restare fedeli al pensiero di Bruce Lee, lo studio interdisciplinare deve avere un obiettivo chiaro e costante: il combattimento senza regole. Non si tratta di accumulare tecniche, ma di integrarle in un sistema fluido e adattabile, che risponda alle esigenze della realtà.
Il Jeet Kune Do non è quindi una somma di Boxe, Muay Thai, Wing Chun o MMA. È una qualità emergente, qualcosa che nasce dall’integrazione consapevole e dall’adattamento, esattamente come una sinfonia non è solo una somma di note e un quadro non è solo una somma di colori. È un’arte con una sua identità propria.
Quando un praticante impara a usare le braccia come un pugile, deve farlo senza sacrificare protezione, equilibrio e mobilità. Massimizzare i ganci e i montanti senza considerare la possibilità di un calcio ai genitali o di un attacco improvviso è inutile. L’obiettivo non è eccellere in ogni disciplina separatamente, ma creare una performance coerente e funzionale in situazioni di combattimento reale.
Strategie pratiche per evitare l’errore
Studiare con obiettivo: ogni tecnica appresa da un’altra disciplina deve essere adattata al contesto del combattimento senza regole.
Integrazione e adattamento: non si tratta di imitare, ma di assimilare elementi utili e integrarli nello stile personale.
Allenamento realistico: praticare sempre considerando spazi, superfici e possibili variabili, non solo condizioni ideali o regolamentate.
Sviluppo di qualità emergenti: concentrare l’allenamento su fluidità, reattività, equilibrio e protezione costante, piuttosto che su forza o tecnica isolata.
Valutazione continua: testare le tecniche in scenari realistici, modificando ciò che non funziona e affinando ciò che è efficace.
Il Jeet Kune Do è molto più di una raccolta di tecniche provenienti da discipline diverse. È un approccio filosofico e tecnico al combattimento, una vera e propria arte della flessibilità e dell’adattamento, che nasce dalla consapevolezza dei limiti degli stili tradizionali e dall’esigenza di prepararsi a situazioni imprevedibili.
L’errore diffuso, quello di studiare discipline diverse come se fossero separati sistemi da sommare, mina completamente la filosofia originale di Bruce Lee. Solo comprendendo che l’obiettivo è il combattimento senza regole, il praticante potrà trasformare conoscenze disparate in una vera arte marziale: fluida, efficace e coerente.
Jeet Kune Do non è la somma delle arti marziali, ma la loro trascendenza, la capacità di assimilare, adattare e trasformare ogni tecnica in funzione di un unico scopo: la difesa reale, immediata e efficace.
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