C’è una frase di Bruce Lee che è diventata quasi un dogma per
chiunque pratichi arti marziali o filosofia del movimento: “Be
water, my friend.”
Ma come accade con molti aforismi
entrati nel linguaggio comune, il suo significato è stato distorto,
semplificato e spesso ridotto a uno slogan da palestra. Il Jeet Kune
Do — la “via del pugno che intercetta” — non era un metodo
chiuso, né un sistema, e tanto meno uno stile. Era un principio, un
modo di pensare il combattimento e la vita.
Eppure oggi,
paradossalmente, proprio il Jeet Kune Do soffre dell’errore più
grande che Bruce Lee cercò di estirpare: la fossilizzazione dello
spirito libero in un sistema dogmatico.
Per comprendere l’errore moderno, bisogna tornare alle
origini.
Negli anni ’60, Bruce Lee — già esperto di Wing Chun
e profondo conoscitore di vari stili — rimase frustrato dalle
limitazioni delle arti marziali tradizionali. I sistemi rigidi, le
forme prestabilite e la mancanza di adattabilità reale nel
combattimento lo portarono a una conclusione drastica: “la verità
non può essere racchiusa in un sistema.”
Il Jeet Kune Do nacque così, non come un nuovo stile da imparare, ma come un’idea: liberarsi da ogni forma di stile. Bruce Lee disse chiaramente:
“Il Jeet Kune Do non è un sistema. È solo un nome, un simbolo che serve a ricordare di non restare intrappolati nei sistemi.”
Eppure, ironicamente, dopo la sua morte nel 1973, molti allievi e istruttori hanno trasformato il Jeet Kune Do in ciò che Bruce Lee disprezzava di più: un sistema rigido, codificato e infarcito di certificazioni e gerarchie.
L’acqua non ha forma, eppure può assumere tutte le forme.
Scorre, penetra, distrugge e si adatta.
Questo era il cuore del
Jeet Kune Do: l’adattabilità assoluta.
Ma oggi “Be water” è
diventato uno slogan motivazionale da maglietta. Si cita Bruce Lee
senza comprendere che l’acqua non è solo fluidità: è anche
disciplina, pressione e direzione.
Bruce non intendeva dire “fai ciò che vuoi”, ma “adatta ciò
che serve.”
Significa conoscere a fondo le regole, le strutture
e le tecniche, per poi trascenderle. Un guerriero senza basi non è
libero: è solo disordinato.
L’acqua fluisce perché ha una
sorgente, una direzione e una forza. Senza queste, evapora.
Oggi molti praticanti di Jeet Kune Do credono che basti mescolare
un po’ di boxe, qualche calcio da Muay Thai e un paio di proiezioni
da Judo per “creare il proprio JKD.”
Nulla di più lontano
dalla verità.
Bruce Lee si allenava in modo ossessivo, studiava biomeccanica,
psicologia e filosofia orientale e occidentale. La sua libertà
nasceva dalla conoscenza, non dall’improvvisazione.
Come diceva
lui stesso:
“L’uomo ignorante copia. L’uomo saggio assimila e trascende.”
Il vero Jeet Kune Do non è un collage di tecniche, ma una sintesi personale costruita sull’esperienza, sulla comprensione profonda e sull’onestà nel combattimento.
Dopo la morte di Bruce Lee, il Jeet Kune Do si è diviso in due scuole di pensiero principali:
Original JKD, promosso da alcuni dei suoi allievi diretti come Taky Kimura e Ted Wong, che cercarono di preservare il JKD così come lo insegnava Bruce.
JKD Concepts, fondato da Dan Inosanto, che seguì lo spirito di espansione e integrazione voluto da Bruce, incorporando elementi da altre discipline (Silat, Eskrima, Muay Thai, BJJ, ecc.).
Entrambi i filoni hanno una loro legittimità, ma anche un
paradosso.
Chi difende l’“Original JKD” finisce per cadere
nella trappola di “imbalsamare” il pensiero di Bruce, trattandolo
come una dottrina fissa.
Chi segue il “JKD Concepts” rischia
invece di diluire il nucleo originale in una raccolta eclettica di
tecniche senza unità.
Bruce Lee, se fosse vivo, probabilmente sorriderebbe amaramente vedendo i suoi allievi discutere su “quale sia il vero Jeet Kune Do”, perché il suo messaggio era proprio quello di non chiedersi mai quale fosse il “vero” sistema.
Una delle frasi più ripetute da Bruce Lee è:
“La semplicità è la chiave della brillantezza.”
Nel combattimento, ogni movimento superfluo è un rischio. Il Jeet
Kune Do non cerca la spettacolarità, ma l’efficienza.
È per
questo che il JKD è essenziale, diretto e privo di ornamenti: non si
tratta di vincere con eleganza, ma di sopravvivere.
Questo principio nasce anche dall’esperienza di Lee con il Wing
Chun. Il JKD eredita la sua economia di movimento, ma la libera dai
suoi vincoli tradizionali.
Dove il Wing Chun si fonda su schemi e
strutture precise, il JKD le utilizza come trampolino per reagire in
modo spontaneo, non meccanico.
Un’altra incomprensione diffusa riguarda l’evoluzione del
JKD.
Molti credono che Bruce Lee intendesse “aggiungere” nuove
tecniche per creare uno stile universale. In realtà, il suo percorso
andava nella direzione opposta: togliere ciò che non serve.
“Non temere l’uomo che pratica 10.000 calci una volta, ma l’uomo che pratica un calcio 10.000 volte.”
Il Jeet Kune Do è un processo di eliminazione.
Togli la
rigidità, togli la paura, togli l’ego, togli il superfluo.
Alla
fine rimane solo ciò che è autentico: la tua risposta reale in un
momento reale.
In questo senso, il JKD non è un sistema tecnico, ma una
filosofia del distacco.
Un praticante di JKD dovrebbe
continuamente chiedersi: “questo movimento mi serve davvero?” Se
la risposta è no, lo si elimina.
È un’arte che cresce per
sottrazione, non per accumulo.
Molti si chiedono se il JKD abbia ancora senso nell’era delle
MMA, dove l’efficacia è testata sul ring ogni giorno.
La
risposta è: sì, ma dipende da cosa si cerca.
Se l’obiettivo è
competere sportivamente, discipline come MMA, Muay Thai o BJJ offrono
un contesto pratico più diretto.
Ma se l’obiettivo è
comprendere il principio universale del combattimento e
dell’adattamento, allora il Jeet Kune Do resta
insostituibile.
Non è un’arte per costruire campioni, ma per formare
individui liberi, consapevoli e adattabili.
In questo
senso, il JKD è più vicino a una filosofia zen che a un sistema di
autodifesa.
Ogni praticante serio di JKD, prima o poi, arriva a comprendere
che la vera battaglia non è contro l’avversario, ma contro se
stessi.
L’ego, la paura, la rigidità mentale — sono questi i
veri nemici.
Bruce Lee non insegnava a combattere, ma a smettere
di mentire a se stessi.
“La verità è fuori da ogni schema. Una volta che ti leghi a un modello, sei perso.”
Il Jeet Kune Do è dunque una via di liberazione.
Non mira a
creare maestri, ma persone capaci di pensare con la propria mente,
reagire con il proprio corpo e fluire con le proprie emozioni.
È
un’arte che insegna a vivere, non solo a colpire.
L’errore più grande nel Jeet Kune Do moderno non è tecnico, ma
spirituale: si è perso il senso del “non
attaccamento.”
Molti cercano nel JKD un metodo
definitivo, una verità assoluta, un’arte superiore alle altre. Ma
Bruce Lee ci aveva già avvertiti:
“Se pensi che il Jeet Kune Do sia migliore di qualsiasi altra arte, non hai capito il Jeet Kune Do.”
La lezione del JKD non è quella di essere forti, ma di
essere veri.
Nel pugno che intercetta non c’è rabbia,
c’è chiarezza.
Nell’acqua che scorre non c’è caos, ma
direzione.
Nel combattente che si adatta non c’è debolezza, ma
libertà.
E forse, in questo tempo dove tutti cercano uno stile, una via o un’identità, il più grande insegnamento del Jeet Kune Do resta quello di non avere nulla da difendere — perché chi è veramente fluido, non può mai essere spezzato.
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